






Nei 3 articoli precedenti, abbiamo visto cosa sono le onde elettromagnetiche, con quali meccanismi vengono emesse dalle sorgenti, e cosa succede a livello atomico quando una radiazione viene emessa o assorbita. In particolare, nell’ultimo articolo (“Gli Spettri Atomici”) si è visto come la presenza nello spettro di una riga (di emissione o di assorbimento; è indifferente) implica la presenza, o nella composizione chimica della sorgente stessa, o nel gas e nel mezzo attraversato dalla sua radiazione, di un certo elemento della tavola periodica.
Vediamo di approfondire un po’ questo aspetto.
COMPOSIZIONI CHIMICHE
Riprendiamo questa immagine, che abbiamo incontrato anche nell’articolo precedente:
Come abbiamo visto, è lo spettro di una stella di tipo A, un oggetto che può raggiungere una temperatura superficiale di 9000K. Siamo già in grado di riconoscere ormai il profilo “globale” dello spettro, una planckiana di corpo nero. E vediamo anche le righe che solcano questa planckiana.
Adesso è il momento di esaminare un po’ più attentamente questo spettro.
Noterete che alcune righe sono numerate in rosso. Questa non è una procedura usuale; è solo che questo spettro è uno dei tanti che abbiamo estratto durante un’attività di laboratorio all’Università, quindi la numerazione l’avevamo introdotta per poi indicare in una tabella per ogni riga l’elemento corrispondente. Per curiosità, vi dirò quali elementi corrispondono a queste righe:
- 1,2,3*,5,6 e 9: sono righe dell’idrogeno, di una serie chiamata serie di Balmer. Significa che per generarle, gli elettroni devono partire o arrivare nell’orbitale caratterizzato da n=2. Ovviamente ad ogni salto corrisponde una riga diversa: ci sarà una riga per il “salto” 2-3 (o 3-2), una per il 2-4, e così via. Non deve sorprendere che la maggioranza delle righe sia da imputarsi all’idrogeno: è lo spettro di una stella, e l’idrogeno è il componente principale delle stelle.
- 4: è una riga di elio. È il secondo componente principale delle stelle, ma dà molte meno righe. Perché? Ricordate la regola dell’ottetto secondo cui un atomo con gli orbitali al completo sono a posto così, non vogliono né cedere né acquistare elettroni? L’elio è uno di questi. Come avviene per tutti i gas nobili (gli elementi dell’ultima colonna della tavola periodica), è molto difficile andare a muovere i suoi elettroni, e quindi avere emissione o assorbimento dell’elio. Ciò nonostante, le condizioni nelle stelle sono tali da permettere anche questo, ed ecco la comparsa delle righe di elio.
- 3 e 8: sono due righe di legate all’atomo di calcio.
- 7: è un tripletto di righe vicinissime sviluppate dall’atomo di magnesio.
Anche se sembrano insignificanti questi ultimi elementi, sono proprio loro a fare la differenza, e a distinguere tra i diversi tipi di stelle: idrogeno ed elio ce li hanno tutte, è la varietà di metalli* presenti, oltre alla posizione del picco della planckiana, a permettere di riconoscere un certo tipo di stella da un’altra (vedremo come vengono classificate le stelle rispetto ai loro spettri nel paragrafo “classificazione spettrale delle stelle”).
Noterete però adesso che oltre a queste righe ce ne sono altre, verso la fine della planckiana, sulla destra, che sebbene siano molto evidenti non sono state considerate. Questo perché si tratta di righe introdotte dal passaggio della radiazione della stella attraverso la nostra atmosfera. Quindi, se teniamo conto del fatto che la radiazione di una stella ha origine nel suo nucleo centrale, abbiamo che le righe degli spettri ci dicono la composizione chimica del nucleo della stella, dei suoi strati gassosi più esterni, della sua atmosfera, del gas interstellare che percorre, dell’atmosfera terrestre.
Ora, è facile capire che l’atmosfera terrestre causa le stesse righe qualunque sia la sorgente della radiazione che stiamo analizzando. Perciò è facile riconoscerle e isolarle. Per quanto riguarda invece le altre righe, sappiamo a quali elementi corrispondono perché oggi disponiamo di tabelle che ci dicono a quale lunghezza d’onda cade la riga di un certo elemento. Ma come sono state costruite queste tabelle? Tanto vale arrivarci ripercorrendo un poco quello che è stato il cammino storico che ha portato la spettroscopia ai livelli attuali. Si parte con Newton, che fu il primo a capire che la “luce bianca” del Sole era in realtà la composizione di 7 diverse “luci colorate”, notando che la luce solare veniva scomposta da un prisma nei 7 colori dell’arcobaleno. Era un po’ la prima “visualizzazione” della banda visibile dello spettro elettromagnetico. Poi, passarono circa 2 secoli, finché Wollaston osservò alcune righe scure nello spettro solare. Tuttavia, il padre della spettroscopia fu il tedesco Fraunhofer. Nel 1814, con uno spettroscopio costruito da lui, osservò le righe di assorbimento del Sole e assegnò alle più evidenti una lettera dell’alfabeto. Neanche lui tuttavia sapeva spiegare cosa originasse queste righe e perché fossero proprio in quella posizione. Di questo si occupò un altro tedesco, Kirchoff. Fu lui a formulare le leggi fisiche dell’emissione e dell’assorbimento, capendo che la radiazione veniva assorbita (o emessa) in un certo modo a seconda di quali elementi chimici la generavano o si trovavano sulla sua strada. A contribuire furono anche esperimenti come quelli dei “saggi-fiamma”: bruciando piccolissime quantità di diversi elementi in una fiamma, questa si colora di colori diversi a seconda dell’elemento. Il calore della fiamma infatti fornisce energia agli elettroni dell’elemento, che assorbono quest’energia e lasciano l’atomo, per poi ricombinarsi ed emettere nuovamente l’energia acquistata. Ogni tipo di elemento ha una data energia che può rilasciare in fase di ricombinazione, come si è visto nell’articolo precedente, e siccome a diverse energie corrispondono diverse λ, ecco che quest’energia in qualche modo si rivela, colorando di una particolare tonalità la fiamma. Il perfezionamento degli strumenti e degli studi ha portato poi a misurare materialmente le lunghezze d’onda, e piano piano si è costruito lo spettro elettromagnetico, prima nella banda visibile, poi, man mano che venivano scoperte, nelle altre bande.
LA CLASSIFICAZIONE SPETTRALE DELLE STELLE
Una volta reso possibile lo studio degli spettri eseguito come sopra, ovvero una volta che si poterono riconoscere le singole righe associando ad esse l’elemento generante, si notò che gli spettri stellari non erano tutti uguali, ma presentavano righe dell’idrogeno e dell’elio diverse, oltre a diversissime combinazioni di righe generate dai metalli.
Come sempre, quando ci si trova davanti a tante diverse tipologie di oggetti, la prima cosa che viene alla mente di fare è fare chiarezza con una classificazione. Il primo a cui si deve la stesura di una classificazione spettrale delle stelle fu un italiano, padre Angelo Secchi. Man mano che gli studi progredirono, la sua classificazione venne modificata e rielaborata, fino a quella attuale, la classificazione di Oxford, portata a termine, tra gli altri, da Annie Cannon:
O B A F G K M
Queste sono le diverse classi spettrali delle stelle, ognuna suddivisa in diverse sottoclassi di temperatura e luminosità. Per ricordare quest’ordine (dovuto a una riorganizzazione di una precedente classificazione in cui gli spettri erano in ordine alfabetico), si usa la frase inglese Oh, Be A Fine Girl/Guy, Kiss Me! (Oh, sii una ragazza/ragazzo gentile, baciami!).
Questa classificazione sarà utile ricordarla, e potremo apprezzare meglio i diversi tipi di stella, quando tratteremo l’evoluzione stellare. Per ora, accenniamo quali sono le caratteristiche spettrali salienti delle diverse classi.
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Stelle di tipo O: sono le stelle più calde. La loro temperatura superficiale può raggiungere i 50000 K, e il picco di emissione cade nel blu o addirittura nell’UV! Le righe dei loro spettri sono legate a atomi altamente ionizzati. Un esempio su tutti, l’elio, che compare privo di entrambi gli elettroni in questo tipo di stella. Ricordando quanto è stato detto sulle energie necessarie per togliere gli elettroni agli atomi, possiamo capire quanto sia grande l’energia necessaria per toglierli entrambi all’elio, già “tosto” in quanto gas nobile. Si capisce quindi che righe del genere sono visibili solo in stelle così calde.
Le stelle O si trovano di norma nelle regioni di formazione stellare. Un esempio di questo tipo di stelle lo si può osservare nella costellazione di Orione, all’interno della splendida nebulosa M42: le stelle che formano il Trapezio centrale sono stelle di tipo O.
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Stelle di tipo B: la temperatura superficiale di una stella B può arrivare a 25000 K, con conseguente picco di emissione nell’azzurro. Pur essendo comunque tantissimi, non sono sufficienti a strappare entrambi gli elettroni all’elio. Possiamo quindi già capire che, se in uno spettro stellare vediamo la riga dell’elio completamente ionizzato (si chiama HeII – He, simbolo chimico dell’elio, e II, 2 elettroni tolti), si tratta necessariamente dello spettro di una stella O, perché già le B non presentano più questa caratteristica. Si può però, in queste condizioni, strappare un elettrone all’elio, e compare allora una riga chiamata HeI. Si vedono poi più chiaramente le righe dell’idrogeno, nonché righe di ossigeno e silicio. Stelle di tipo B sono ad esempio Spica e Regolo, le più brillanti delle costellazioni, rispettivamente, della Vergine e del Leone.
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Stelle di tipo A: scendiamo intorno ai 10000 K di temperatura superficiale, con picco di emissione nel bianco (azzurro chiarissimo). L’elio ora può comparire solo neutro (e in questo caso le sue righe sono date dal movimento degli elettroni dentro l’atomo), l’idrogeno è ben visibile e compaiono metalli come il magnesio, il ferro, il calcio. Di stelle di tipo A abbiamo diversi esempi “famosi”: Sirio (Cane Maggiore), Castore (nei Gemelli), e le tre stelle del triangolo estivo: Vega, Deneb e Altair, le più luminose delle costellazioni della Lira, del Cigno e dell’Aquila.
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Stelle di tipo F: siamo a temperature superficiali intorno ai 7500 K, con picco di emissione nel verde. L’idrogeno ricomincia a indebolirsi, mentre si intensifica il calcio. Un esempio di stella di tipo F è Procione, la più luminosa del Cane Minore.
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Stelle di tipo G: le temperature scendono intorno ai 5500-6000 K, il picco di emissione è nel verde-giallo. Il calcio è intensissimo, come altri metalli neutri. Una stella G la conosciamo bene: è il nostro Sole. Uscendo dal Sistema Solare, invece, troviamo come esempio Capella, la stella più luminosa della costellazione dell’Auriga.
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Stelle di tipo K: le stelle K hanno temperature superficiali intorno ai 4000-5000 K, con picco di emissione nell’arancione. L’idrogeno è debolissimo, i metalli, neutri, sono invece molto intensi. Cominciano a comparire bande legate alle transizioni molecolari (vedremo più avanti in quest’articolo cosa “combinano” le molecole). Sono stelle K Arturo e Aldebaran, le luminosissime stelle del Boote e del Toro.
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Stelle di tipo M: le temperature superficiali delle stelle M si aggirano intorno ai 3000 K, con picco di emissione nel rosso. L’idrogeno non è più visibile, mentre sono fortissimi il calcio e le bande molecolari. Esempi di stelle M sono Betelgeuse in Orione e Antares nello Scorpione.
Dalla posizione del picco della planckiana e dalla presenza o meno delle righe, più o meno intense, di alcuni metalli o molecole, è possibile quindi ricavare una descrizione praticamente completa della stella.
Facile, a questo punto, dirà qualcuno. Ma attenzione, perché nella posizione delle righe c’è qualcosa di più.
REDSHIFT E BLUESHIFT: DISTANZA E VELOCITÀ
La posizione delle righe negli spetti ci permette di identificare gli elementi, e con essi il tipo di stella. Ma c’è di più: qualcosa che è allo stesso tempo un’ulteriore preziosissima informazione e un ostacolo a quanto detto fino ad ora.
Le righe infatti sappiamo dove dovrebbero essere, ma non le troviamo mai al posto giusto. Una riga che magari dovrebbe trovarsi in corrispondenza di una di 10 mm, magari la troviamo a 15, e una che dovrebbe essere a 20 mm la troviamo a 25. Questo perché? Per un effetto che si chiama effetto Doppler, e che porta a quelli che in astronomia si chiamano redshift e blueshift. Cosa sono? Beh, intanto bisogna dire che le stelle non sono fisse. Come la Terra ruota intorno al Sole, il Sole ruota intorno al centro della Via Lattea, e come lui tutte le altre stelle sono in movimento. Intorno al centro della galassia, ma anche intorno al centro di gravità dell’ammasso a cui magari appartengono, e così via. In generale possiamo dire che ogni stella o si allontana o si avvicina a noi. La conseguenza è che la lunghezza d’onda della radiazione che emette ci arriva modificata. Se la stella si allontana, si “trascina dietro” la radiazione che veniva verso di noi, ed è come se la stirasse. Immaginate di attaccare due bastoncini alle due estremità di un foglietto di carta piegato a fisarmonica, con le pieghe il più uguali possibile e perpendicolari ai due bastoncini. Uno siete voi, e lo lasciate fermo. Il foglietto rappresenta la radiazione, l’altro bastone è la stella sorgente.
Tirate il bastoncino che rappresenta la stella allontanandolo dal vostro. Vedrete che le pieghe del foglietto si apriranno: la lunghezza d’onda della vostra radiazione è aumentata.
Viceversa, una stella che si avvicina “comprime”, spinge la radiazione che emana verso di voi. Rimettete bastoncini e foglietto come erano all’inizio, e stavolta spingete il bastoncino che rappresenta la stella verso il vostro. Vedrete che le pieghe si faranno più fitte: la lunghezza d’onda della radiazione è diminuita.
Siccome il rosso è a una lunghezza d’onda maggiore del blu, si dice che quando λ aumenta “va verso il rosso” e quando diminuisce “va verso il blu”: lo spostamento verso il rosso e verso il blu si chiama, in inglese, redshift e blueshift.
Questo cosa comporta quindi? Che quando estraiamo uno spettro, le righe sono a lunghezze d’onda maggiori o minori di quelle che avevano quando la radiazione ha lasciato la stella.
Nello spettro della stella A che abbiamo visto all’inizio, le righe non erano alle λ che trovavamo indicate in tabella, ma a λ tra i 0.5 e i 5 Å più lunghe. Se pensiamo a quanto è piccolo 1 Å (un centomilionesimo di centimetro), sembra una differenza insignificante. In realtà, basta perché magari una riga di un elemento vada a cadere nella posizione che invece spetterebbe a un’altra riga di un elemento diverso, e questo può portare a errori di interpretazioni della composizione chimica della stella.
Questo rappresenterebbe un problema non da poco, dunque. Tuttavia, ci sono gli strumenti per riconoscere le righe anche quando sono fuori posizione, magari perché sono abbastanza intense da essere riconoscibili come righe di un dato elemento o perché, dai confronti tra le λ osservate delle righe e quelle teoriche delle tabelle, si riesce a riconoscere lo spostamento medio.
A questo punto l’inconveniente diventa una risorsa: lo spostamento di una riga (indicato con Δλ) proporzionato alla λ a cui dovrebbe cadere la riga, dà il redshift (o blueshift) della riga stessa. La media tra i red/blueshift delle diverse righe dà il red/blueshift medio della stella.
Veloce riepilogo: lo spettro finora ci dà la temperatura della stella (picco del continuo), la composizione chimica (righe) e il redshift, o blueshift, della stella.
Quest’ultimo è in grado di portarci ad altre due importanti informazioni: la distanza della stella e la sua velocità. Vediamo adesso come:
- velocità: positiva se la stella si sta allontanando da noi, negativa se la stella si sta avvicinando, la velocità con cui la stella si sposta emerge da questa semplice formula:
v = (Δλ/λ) c
dove c è la velocità della luce nel vuoto, Δλ lo spostamento della riga e λ la λ teorica a cui dovrebbe trovarsi la riga. La velocità v viene dunque calcolata per ogni riga, dopodichè la media restituisce la velocità della stella. In genere, le stelle si muovono a velocità di decine o centinaia di km/s.
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distanza: il redshift o blueshift, indicato con la lettera z, entra nella legge di Hubble, secondo la quale più gli oggetti sono lontani più velocemente si allontanano gli uni dagli altri. Si ha che:
d = (z c) / H0
H0 e c sono dei numeri, dei valori costanti, quindi se conosciamo z otterremo automaticamente d, la distanza della stella.
Ecco dunque tutta l’importanza della spettroscopia: uno spettro ci dà temperatura, composizione chimica, distanza e velocità di spostamento di una stella. Sapere la distanza ci consente di stimare la sua luminosità assoluta, quella vera, da un semplice confronto con quella apparente (quella con cui la vediamo brillare). E conoscere la luminosità assoluta e la temperatura consente di posizionare la stella su un particolare diagramma (il diagramma HR), così da conoscere a quale stadio della sua evoluzione si trova. Questi ultimi aspetti verranno approfonditi negli articoli che saranno dedicati all’evoluzione stellare.
MODELLI ATOMICI
Mancano un paio di argomenti necessari per completare il quadro. Cominciamo dai modelli atomici. Abbiamo parlato fino ad ora di atomi per come sono concepiti adesso, ma è interessante dare uno sguardo a quelle che erano le idee e le strutture atomiche utilizzate prima che si raggiungessero le conoscenze odierne.
L’idea che la materia non fosse un continuo, ma un insieme di particelle minuscole e indivisibili vicinissime tra loro, la cosiddetta teoria atomica, risale addirittura all’antica Grecia. L’idea del greco Democrito fu ripresa solo agli inizi del XIX secolo da Dalton, che pose 5 punti fondamentali relativi agli atomi:
- la materia è formata da particelle piccolissime, indivisibili e indistruttibili chiamate atomi;
- gli atomi di uno stesso elemento sono tutti uguali tra loro;
- gli atomi di elementi diversi si combinano tra loro con quelle che si chiamano reazioni chimiche, sempre in quantità intere e generalmente piccole, formando i composti;
- gli atomi non possono essere né creati né distrutti;
- gli atomi di un elemento non possono essere trasformati in atomi di un altro elemento.
Quasi un secolo dopo, nel 1902, Thomson propose la prima struttura di atomo. Secondo la sua idea, l’atomo era sostanzialmente una sfera di materia di carica positiva con gli elettroni (unica particella subatomica allora conosciuta, anzi, scoperta da Thomson stesso) negativi piantati nella sfera, in un numero tale da bilanciare la carica positiva rendendo l’atomo complessivamente neutro. Il suo modello prendeva il nome di “modello a panettone” o “ad atomo pieno”.
Atomo di Thomson
La scoperta della radioattività e un cruciale esperimento svolto nel 1910 portarono alla decadenza di questo modello. L’esperimento era nato con l’idea di provare e confermare l’idea di Thomson, e consisteva nel bombardare con una radiazione una sottilissima lamina d’oro. Il risultato fu che l’1% della radiazione lanciata veniva deviato dalla sua direzione, e una parte ancora minore veniva completamente respinta. Le percentuali in gioco erano piccole, eppure bastarono per rivoluzionare il modello di atomo che si voleva inizialmente confermare. Ad eseguire gli esperimenti furono due allievi di Rutherford (Geiger e Marsden). Dai loro risultati, Rutherford immaginò un atomo in cui quasi tutta la massa era concentrata in un nucleo positivo piccolissimo, mentre gli elettroni ruotavano intorno al nucleo a grandissima distanza, una distanza che andava dalle 10000 alle 100000 volte il diametro del nucleo.
Atomo di Rutherford
Questo modello, chiamato modello planetario, in quanto rassomigliava a una sorta di minuscolo sistema solare con il nucleo a fare il ruolo del Sole (in effetti anche il Sole ha quasi tutta la massa dell’intero sistema solare) e gli elettroni a ruotargli intorno come pianeti, prevedeva quindi che l’atomo fosse sostanzialmente vuoto, e questo spiegava perché la maggior parte della radiazione attraversava gli atomi d’oro indisturbata. Nel 1920 Rutherford, in seguito ad esperimenti altrui quale quelli di Goldstein e Wien, aveva dato nome “protone” alla particella di carica positiva rilevata in tali esperimenti. Tuttavia, nell’idea di atomo che aveva proposto, Rutherford aveva capito che i protoni da soli non bastavano a generare l’intera massa del nucleo, e avanzò quindi l’idea dell’esistenza di altre particelle, presenti nel nucleo. Il neutrone fu scoperto ufficialmente da Chadwick nel 1932.
Il modello planetario di Rutherford aveva però un grosso limite: andava contro a una delle leggi fondamentali dell’elettromagnetismo, secondo la quale una particella carica in movimento avrebbe dovuto emettere una radiazione perdendo energia. Gli elettroni erano cariche in movimento, e quindi avrebbero dovuto emettere radiazione e perdere energia fino a ricadere spiraleggiando sul nucleo. Bohr e Sommerfeld cercarono di modificare dunque l’atomo di Rutherford per tentare di risolvere questa contraddizione, introducendo per gli elettroni delle “orbite di rotazione” quantizzate (gli studi di Planck sulla quantizzazione dell’energia risaliva agli inizi del Novecento). Il loro modello funzionava benissimo per l’idrogeno, ma aveva problemi su atomi più complessi. Un’idea importante però c’era, ed era quella secondo cui l’emissione di radiazione avveniva solo quando l’elettrone si muoveva tra due livelli diversi.
La fisica quantistica poi abbandonò il concetto di livelli quantizzati e introdusse l’orbitale, in quanto, secondo il principio di indeterminazione di Heisenberg, non era possibile sapere con precisione la posizione dell’elettrone e la velocità con cui si muove contemporaneamente. Non si poteva quindi più parlare di traiettorie e orbite, ma di orbitali, cioè regioni di spazio intorno al nucleo in cui un elettrone ha il 95% di probabilità di trovarsi in un certo istante di tempo. Questo è il modello di atomo oggi accettato e utilizzato, ed è quello che abbiamo considerato anche noi nei nostri articoli di spettroscopia.
SPETTRI MOLECOLARI
Infine, è giunta l’ora di dare un’occhiata a cosa fanno le molecole. Finora si è parlato di atomi singoli, ma anche quando sono legati a formare una molecola possono muoversi l’uno rispetto all’altro. Questi movimenti si traducono in radiazioni, e adesso vediamo come.
Immaginiamo una molecola come un insieme di palline unite tra loro da bastoncini (non sono assolutamente fatte così! È solo per avere un’idea).
Quel che succede all’interno delle molecole è troppo complesso per poter essere spiegato qui. Entrano in gioco diversi fattori, energie e simmetrie, quindi ci limitiamo a schematizzare, e a dire che in una molecola si possono avere:
- transizioni vibrazionali: il “bastoncino” che lega due atomi vibra;
- transizioni rotazionali: gli atomi ruotano lungo i loro “bastoncini”;
- transizioni elettroniche: sono i normali “salti” degli elettroni con cui abbiamo avuto a che fare fino ad ora.
Nelle molecole, ci sono regole precise sulle transizioni di diverso tipo che possono avvenire. Le transizioni che violerebbero queste regole sono dette proibite. Questo tuttavia non significa che non possono avvenire. Anzi, proprio una coppie di righe proibite dell’ossigeno che spiccano molto alte rispetto al fondo continuo dello spettro consentono di riconoscere all’istante, quasi prima di andare ad analizzare per bene le righe, lo spettro di una nebulosa planetaria.
Spettro di una nebulosa planetaria. Si noti come spiccano le righe proibite dell’ossigeno.
Sono proibite per quelle che sono le usuali condizioni di un laboratorio. Ma nello spazio esistono situazioni impossibili da ricreare in laboratorio, e lì possono aversi anche le transizioni proibite.
Come ho detto all’inizio, per spiegare quel che avviene in una molecola serve una formulazione matematica che preferisco tralasciare. Basti sapere che le transizioni vibrazionali e rotazionali (o quelle composte, le cosiddette roto-vibrazionali) si manifestano nella banda infrarossa e nelle microonde, mentre le transizioni elettroniche sono rilevabili nel visibile o nell’ultravioletto.
Non a caso ALMA (Atacama Large Millimeter-submillimeter Array), un gruppo di circa 60 antenne radioastronomiche situato in Cile, nel deserto di Atacama, a circa 5000 m di altezza, operando proprio nella regione delle microonde consente di mappare la distribuzione della CO2 nello spazio. La relazione che lega l’abbondanza della CO2 (anidride carbonica) nell’universo a quella dell’idrogeno ha consentito di ricavare la mappa dell’idrogeno a partire da quella di CO2 costruita tracciando le sue righe di transizione molecolari. Si vede quindi come tutto in astrofisica arriva a ricollegarsi.
L’ultimissima curiosità: una riga spettrale tra le più “famose” è la riga radio a una lunghezza d’onda di 21 cm, corrispondente a una frequenza di 1.4 GHz. È la riga dell’idrogeno. ALMA è stato posizionato a 5000 m proprio per limitare al massimo la quantità di vapore acqueo nell’atmosfera: l’acqua ha 2 atomi di idrogeno, e l’emissione del vapore atmosferico quindi potrebbe andare a coprire quella dell’idrogeno “spaziale”.
*In astrofisica, gli elementi sono considerati come se fossero tre: idrogeno, elio e dal litio in poi tutto viene indicato con il nome di “metalli”.
Si chiude con questo articolo la trattazione della spettroscopia. Dal prossimo articolo, comincerà una serie di articoli che tratteranno l’evoluzione stellare, dalla nascita nelle nebulose ai diversi possibili stadi finali.
Claudia Ferrari






